di Molière | regia Luca Micheletti
"Vedere non vuol dire, fallace è l'esperienza…"
Intrigante, amata, proibita, esilarante, misteriosa, ambigua, sfuggente commedia, Tartufo è il cuore dell’invenzione teatrale di Molière. È il testo che egli ha difeso con più accoramento e dedizione dagli attacchi della “cabala dei bigotti” che voleva censurarlo; è una satira dell’ipocrisia di ogni tempo che doveva costargli cara. Ma, forse proprio a causa delle difficoltà attraversate, Tartufo oggi scintilla di una luce mirabile, quella dei capolavori che sorprendentemente rasentano la perfezione. La verità e la libertà di coscienza sono le oneste virtù che questa commedia vuol celebrare, contrapponendole al trasformismo morale e all’impostura dei tanti “tartufi” in circolazione, non a caso così definibili per antonomasia proprio a partire dal grande classico molieriano. Il più grave attacco ai chiusi di mente, ai crudeli, ai sordi censori di ogni tempo è costituito dal ridicolo al quale li si espone. Fu lo stesso Molière a considerare che “si tollera di essere cattivi, ma nessuno vuol essere ridicolo”. Qui la corruzione, anche quando affascina, muove al riso: ed è proprio il riderne che la esautora di qualsiasi credibilità od efficacia. Eppure, Tartufo non è soltanto una bella satira di costume, ma anche un viaggio perturbante nei meandri della coscienza religiosa occidentale, tra autentico fervore e grossolana mistificazione: non sfugge, insomma, pur nella piacevolezza e nell’irresistibile humour di Molière, che egli ha voluto intessere una sottile trama parallela alla commedia in cui a scontrarsi non sono soltanto i bigotti e i liberi pensatori, ma il Bene e il Male: e il loro campo di battaglia non è soltanto quello del vivere in società secondo un’etica feconda e sana, ma anche quello interiore e spirituale, che riguarda la coscienza e la morale di ognuno.
La vicenda, arcinota, è centrata su un colpo di mano sventato soltanto in extremis: Tartufo, un “servo” infingardo e intollerante delle costrizioni sociali, plagia il credulo Orgon con la promessa di ripulirlo da ogni funesta passione (ma in realtà ne attenta al patrimonio, alla credibilità domestica e civile e perfino all’onestà della moglie). Nella sua spregiudicata carriera, nel tentativo di sostituirsi in tutto e per tutto al suo ospite come un parassita da manuale (il suo nome, che evoca il prezioso fungo sotterraneo, anche a questo si deve), Tartufo tenta di sovvertire l’ordine costituito, come un antagonista rivoluzionario d’ogni sovrastruttura borghese (non a caso Pasolini lo terrà a modello del suo Teorema): è l’incarnazione del pericolo di autodistruzione di un mondo ridicolo e fondato sull’eccesso. Egli contamina, appesta, intacca, corrompe attraverso il più antico potere di seduzione di cui il teatro stesso si nutre: la simulazione.
I guitti – dopo aver allestito, negli anni, alcuni fra i più celebri capolavori del genio francese (dal Malato immaginario a La scuola delle mogli, dal Medico per forza alle Furberie di Scapino, dal Borghese gentiluomo alle farse di Sganarello) – arrivano a Tartufo in un momento cruciale della loro storia: per i 130 anni della dinastia e all’indomani dei quarant’anni della Compagnia fondata sulla tradizione del teatro girovago dei padiglioni mobili in arte fin dall’Ottocento, questo allestimento firmato da Luca Micheletti, riunisce altri membri storici della Famiglia d’Arte: Adolfo Micheletti, Stefano Micheletti, Nadia Buizza, cui si affiancano nuove generazioni di teatranti, ormai veterani dei Guitti: Claudia Scaravonati e Diego Baldoin.